La ragazza stuprata da sola a processo, la Dibisceglia “difende” solo sui social

Il racconto intimo, la denuncia della vittima, il coraggio di superare pregiudizi e retropensieri, la dinamica che porta spesso la vittima a diventare carnefice e la logica del “se l’è cercata”. C’è stato tutto questo dietro la forza di una ragazzina di tredici anni che l’anno scorso, dopo essere stata sessualmente abusata da un branco di maggiorenni, ha varcato le porte del Commissariato per sporgere denuncia contro i tre aguzzini poi condannati in primo grado a sei anni e due mesi di reclusione, più pene accessorie e provvisionale da 30mila euro.

Eppure in quel processo il Comune non si è mai costituito parte civile. Né, tantomeno, si sono costituite in giudizio le associazioni che col Comune operano e dal Comune ricevono finanziamenti per “parlare” di violenza sulle donne. Non c’era nessuno di loro tra le parti civili costituitesi a processo. Soltanto la ragazzina di 13 anni, irrimediabilmente lasciata sola.

Soltanto una settimana fa, proprio nelle ore in cui la tredicenne era in aula a confronto con il branco, ironia della sorte, la Dibisceglia, che detiene la delega ai servizi sociali, parlando di violenza sulle donne annunciava di voler “smuovere le coscienze affrontando le realtà che spesso rispondono a quei mille pregiudizi che influenzano le nostre opinioni”. Oltre alle parole, però, non c’è stato alcun atto concreto quale poteva essere la costituzione di parte civile. Non solo un atto dovuto, ma un segno tangibile di vicinanza e di priorità di valori.

Con la Dibisceglia, a parlare di teoria, tutte quelle associazioni che, come ha ricordato l’avvocato della vittima, non si sono presentate al processo per sostenere la causa di una minorenne abusata.  Un atto oggettivamente grave per chi dovrebbe combattere ingiustizie ed è pagato per difendere i più fragili.

Michele Cirulli