venerdì, Aprile 19, 2024
Cultura

CINEMA | Dante di Pupi Avati: l’uomo prima del mito

CINEMA | Dante di Pupi Avati: l'uomo prima del mito

Pupi Avati è un regista peculiare nel panorama italiano: in tempi ristretti riesce ad imbastire film di pregevole fattura e che restano impressi nella memoria cinematografica nazionale. E’ avvenuto anche con il recente, attesissimo biopic sul fondatore della letteratura italiana e artefice stesso dell’idea di unità nazionale, a breve distanza dalla celebrazione del settimo centenario della sua morte. In neanche tre mesi di lavorazione il regista romagnolo è riuscito a donare un tassello fondamentale nella produzione audiovisiva italiana, scevro da eccessi melò e da accostamenti troppo marcati con l’attualità patria, che avrebbero finito inevitabilmente per pregiudicare la resa di un film di cui si è avvertita la mancanza per troppo tempo. Infatti basti pensare che il cinema italiano nasce sotto gli influssi del Poeta fiorentino; risale al 1911 un breve girato muto su alcuni bozzetti della Divina Commedia.

Ma Avati sceglie di glissare quasi totalmente dal capolavoro in versi per narrare dell’uomo che si celava dietro le pagine meravigliose, ripercorrendo i pochi dati sicuri sulla biografia del genio medievale dall’infanzia alla prematura morte avvenuta a Ravenna. Realizza l’ambito progetto attraverso lo sguardo innamorato dell’autore cui si deve la nascita della mitopoiesi dantesca, l’altra corona del Trecento Giovanni Boccaccio, un convincente e magistrale Sergio Castellitto che la fa da mattatore della scena fino all’ultimo fotogramma. L’obiettivo della macchina da presa segue il viaggio nel tempo e nello spazio con cui Boccaccio si recò al monastero ravennate presso cui soggiornava la figlia del Sommo Poeta, suor Beatrice, allo scopo di portarle la richiesta di perdono da parte del Comune di Firenze per le angherie arrecate a suo padre.

La raffigurazione di Dante Alighieri affidata alla giovane promessa Alessandro Sperduti tende certamente all’agiografia, come imponevano i cuori del cultore e del folto comitato scientifico di revisione tra cui i compianti Marco Santagata ed Emilio Pasquini, ma non con oleografica affettazione ma con considerazione sofferta per le vicende terrene del grande letterato, visto come esempio di coerenza e di coraggio ancor prima che di eccellenza letteraria. Difficile trattenere la commozione di fronte a determinati momenti. Primo di tutti la partecipazione giovanile alla battaglia di Campaldino a fianco dell’amico fraterno e notevole poeta anch’egli Guido Cavalcanti. Grande spazio è dedicato alla dimensione dell’impegno politico di Dante, quel cimento duro che costò sofferenze e dolori a lui e alla sua famiglia, ma cui non desistette mai fino alla fine dei suoi giorni.

Seguiamo il giovane idealista alle prese del suo impegno da Priore di Firenze, portato avanti con abnegazione, quasi da novello “sindacalista”, come difensore degli strati più umili del popolo dai soprusi della nobiltà fiorentina. Una passione che viene stemperata da momenti di grande liricità emotiva, come lo sguardo perso nella nostalgia con cui Dante da una torre si rivolge in direzione di Firenze durante il suo esilio. Dante viene visto anche come esempio di profonda fede, che lo porta a scindere la pietà religiosa dall’ossequio a papa Bonifacio VIII.


Splendido è il vis a vis fiero con papa Benedetto Caetani, un imbolsito e languido Leopoldo Mastelloni, durante l’ambasceria a Roma che segnò l’inizio della caduta agli inferi per il poeta. In risalto viene messo l’evento cardinale della sua vita, ossia l’amore per Beatrice. Una fanciulla dalle fattezze angeliche e dal viso ingenuo, ma venata da un sottile erotismo in alcuni nudi frontali. Del resto l’esperienza amorosa è sempre stata importante per Dante.

Il suo rapporto con il femminile è ben descritto in tutte le sfumature: dal poco menage familiare con la moglie Gemma Donati all’infatuazione adultera per la Donna Gozzuta, una bellissima e ricca mugnaia che diede accoglienza all’esule in fuga. Un elemento questo, il tradimento coniugale, con accenno latente alla questione del figlio naturale Giovanni Alighieri, che conferisce maggior umanità al figurino fin troppo santificato.

L’ultima opera di Pupi Avati rimarrà a lungo nell’immaginario collettivo, non solo per l’importanza del soggetto, ma per la bravura della sovrapposizione fra i piani paralleli di Boccaccio e Dante, che alla fine si incontrano con lo struggente dialogo finale fra Suor Beatrice e l’autore del Decameron, le cui ultime sono tutte rivolge a celebrare l’uomo che “conosceva tutte le stelle”.

Enrico Frasca


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